(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Questa settimana vorrei commentare due eventi che hanno coinvolto due persone anziane piuttosto note: la cittadinanza onoraria che il comune di Sciacca ha consegnato ad Antony Fauci, e la morte del Principe Filippo.
“Sono emozionato, onorato e profondamente commosso nell’accettare le chiavi di Sciacca in nome dei miei nonni paterni Antonino e Calogera Fauci. Entrambi sono nati a Sciacca, dove la famiglia di mio nonno gestiva un centro termale. All’inizio del ventesimo secolo, loro e i miei nonni materni emigrarono a New York in via Ellis Island, ed è così che sono nato e poi vissuto a Brooklyn. Nella mia esperienza molti immigrati Italo americani erano imbevuti dello spirito di gratitudine trasmesso dai nonni ai genitori e ai nipoti. Questo spirito era l’amore per il nuovo Paese, l’America, e il desiderio di restituirgli qualcosa. E da mio padre è arrivato a me”.
È uno stralcio della lettera di Fauci pubblicata sul Corriere della Sera alcuni giorni fa, la testimonianza di intere generazioni di italiani che hanno lasciato l’Italia per motivi economici e onorato i paesi nei quali sono emigrati. Storie anche di tribolazioni e di emarginazione: come non ricordare le cronache dei primi anni del secolo scorso dei giornali americani sugli “italiani sporchi e tutti mafiosi”. Fauci ha fatto memoria, gliene siamo grati, ci rammenta che siamo un popolo di migranti, ancora oggi con i centomila e più ragazzi che hanno lasciato il Paese in questi ultimi anni, a volte per la fatica a trovare un lavoro degno, a volte per scelta. Porto nel cuore la testimonianza di una giovane italiana che abita da anni a Toronto: “Torneresti in Italia?” gli ho chiesto; “ Per ora no, sto bene, mi sono inserita dopo anni di fatica, i canadesi stanno molto sulle loro; però se posso fare qualcosa da qui per la mia Patria, sono a disposizione”.

“Voglio morire a casa” è stata l’ultima richiesta del Principe Filippo a sua moglie, la Regina Elisabetta irremovibile garante di questo desiderio. Ho letto la bella riflessione di Mario Giro sul quotidiano “Domani” di alcuni giorni fa, la riprendo e la faccio mia. Filippo ha espresso un desiderio caro a tutti noi: morire a casa!, non in un ospedale, intubati e soli, seppur aiutati da infermieri generosi. Tempo fa si moriva prima e a casa, la morte era un passaggio condiviso in famiglia, con figli e nipoti. I progressi della scienza e della medicina hanno allungato i tempi di vita, una benedizione per le nostre generazioni, ma si è “allontanata” la morte, è stata rimossa, esiliata negli ospedali o nelle case di cura. Non ne parliamo volentieri, evitiamo le situazioni che ce la rammentano: le fragilità che troviamo in noi stessi, le malattie croniche, le menomazioni, le piccole disabilità che si affacciano con l’avanzare dell’età . Abbiamo sposato il paradigma efficientistico secondo il quale l’unica vita degna è quella autosufficiente e in buona salute, le altre vite hanno meno valore tanto che si riparla di una legge sulla eutanasia. Argomento complesso indubbiamente, ma che nasconde una cultura nichilista, di solitudine e abbandono, e individualistica tanto pervasiva da chiedere allo Stato la tutela di un diritto ( per me inesistente) alla morte. La pandemia con ferocia ci ha fatto vivere questa realtà del “ morire da soli”: neppure una carezza, un bacio, un funerale per ricordarli nei nostri cuori. “Morire a casa”, stare a casa per quanto possibile , fino a quando non giungerà la partenza: è un tema non solo morale ma che tocca la politica tutta e il welfare della prossimità. In questi anni abbiamo combattuto contro le reclusioni imposte ai più fragili: ai bambini abbandonati mai più orfanotrofi, ai malati di mente mai più ospedali psichiatrici, alle persone disabili mai più strutture segreganti …
Ecco, che non accada agli anziani non più autosufficienti, come ci ha ricordato Mons. Paglia nell’ultimo webinar.